Cultura

L’antica festa “mobile” prequaresimale del Carnevale a Catania, anche nell’Ottocento, rappresentava, dopo lo <spaventoso> festino di S.Agata non di rado coincidente per ragioni di calendario dettate dalla data “mobile” della domenica di Pasqua (oscillante tra il 22 marzo e il 25 aprile), l’ultima grande occasione pubblica che univa popolo e aristocrazia in preda a collettiva euforia, spesso sfrenata tale da creare non pochi grattacapi ai tutori dell’ordine pubblico. Le autorità di Polizia cercavano di arginare e disciplinare in modo particolare i frequenti eccessi carnacialeschi con provvedimenti richiamanti le famigerate <grida> di manzoniana memoria.

Un apposito <regolamento> del 4 gennaio 1818, riguardante le maschere, prescriveva che esse erano permesse in città per l’intero corso del carnevale (coincidente liturgicamente con le settimane di settuagesima e di sessagesima e dei primi tre giorni di quinquagesima, cioè dal settantesimo al cinquantesimo giorno prima di Pasqua), ad eccezione delle domeniche e degli altri giorni festivi durante “le sacre funzioni della mattina in tutte le chiese”, prima del mercoledì delle ceneri giorno dell’austero inizio della quaresima (periodo penitenziale di 40 giorni in preparazione alla Pasqua).

Erano proibite le maschere con “abiti usati da’ Ministri della Religione, da’ Magistrati, e da’ Funzionari pubblici. Era anche vietata “qualunque foggia di travestimento che fosse diretto ad offendere il costume, e la decenza pubblica”. L’art.4 vietava la “vendita, ed uso di quelle maschere, che presentassero figure disgradevoli, o mostruose”. L’ordinanza proibiva alle persone mascherate di “portar bastone, spada, o armi di qualunque specie”.

Dalla mezzanotte, nessuno poteva portare maschere in volto “eccetto che nei teatri in occasioni di feste da ballo”. L’art.7 vietava alle persone mascherate o travestite di “introdursi con violenza nelle case, o nelle botteghe altrui”. Al semplice invito di un funzionario di “Polizia “qualunque persona mascherata o travestita era tenuta a seguirlo”: in casi di resistenza sarebbe stata accompagnata nel “posto di Guardia del Quartiere”.

L’ultimo articolo vietava a “chicchessia di tirare degli oggetti di qualunque specie sulle maschere, e su le altre persone a meno ch’essi non sieno de’ piccioli confetti; questi dovranno essere vibrati in aria, e non mai sul volto delle persone”. I coriandoli di carta colorata derivano proprio dai <piccioli confetti>.

Per il carnevale del febbraio 1852 la situazione s’irrigidì: il questore vietò ai catanesi di “comparire in maschera nelle vie, sulle piazze, né in qualunque altro luogo pubblico senza l’autorizzazione in iscritto dell’Autorità locale”. Il regolamento borbonico divenne sabaudo nei primi anni dell’Unità d’Italia. Il 14 febbraio 1868, il “funzionante da questore” della città e del circondario di Catania, Lupo, “veduti gli articoli 34 della legge di P.S. 20 marzo 1865, e 42 del Regolamento  18 maggio 1865”, in 6 articoli “determinò” precisi e dettagliati comportamenti, quale, ad esempio, quello  di proibire ai mascherati o travestiti  “d’introdursi nelle altrui case senza l’espresso  consenso di chi le abita, di portare armi, bastoni ed altri strumenti atti ad offendere, di usare fuochi d’artificio, materie combustibili, proiettili o cosa qualunque che possa recar danno od incomodo altrui, di proferire discorsi o parole, come pure di fare atti che possano tornare ad oltraggio di terzi, o essere altrimenti causa di provocazione a brighe e disordini”.

L’art.5 vietava sulle “pubbliche strade quelle riunioni di persone che per avventura potessero impedire il libero passaggio”

Antonino Blandini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti sul post