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“Riportare in scena dopo quasi quindici anni ’A Cirimonia è un rischio e un atto d’amore. Specie dopo che due grandi maestri come Enzo Vetrano e Stefano Randisi gli hanno dato la vita che gli hanno dato, ma del resto io amo parecchio la possibilità di fallire, e per poi magari rimandare a una prossima volta”. Con queste premesse, Rosario Palazzolo approda – venerdì 6 e sabato 7 dicembre, ore 21, al Piccolo Teatro della Città – con il suo A Cirimonia, spettacolo che vede in scena lo stesso autore e regista insieme con Anton Giulio Pandolfo, impegnati a dar vita ai due protagonisti, U masculu e ‘A fimmina che celebrano una “cerimonia sghemba”.

Lo spettacolo, con le musiche di Gianluca Misiti e le voci registrate di Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo, propone, appunto, “una cerimonia che si annuncia inutile, una cerimonia che li obbliga a un dialogo che solo apparentemente è privo di senso, un dialogo disteso su di una lingua ruvida, deforme, asintattica e svirgolante, un dialogo straripante di silenzi pieni di paura, che man mano si trasforma, e diviene urlo, esigendo un ritmo da tragedia e una musicalità surreale. Fino al fallimento finale. Ché quello pretendono, i due, il fallimento, perché è la loro scelta, il solo modo che hanno per finire qualsiasi cosa pensano d’aver cominciato”. “U masculu e ’A fimmina, i due personaggi de ’A Cirimonia, sono proprio così: due entità atterrite e allo stesso tempo indomite, che provano a costruire il limite più spaventoso di tutti, quello che determina ciò che è vero da ciò che non lo è” dice Palazzolo.

E la verità è un obiettivo impossibile, mi pare, nella vita di ciascuno, ma lo stesso loro intendono conquistarlo, annotando presupposti fasulli e certezze che credono acquisite, senza rendersi conto di aver congegnato soltanto avamposti fragilissimi: degli alter ego mediocri e finti tonti, a cui far vivere le simpatiche peripezie col patto che dimentichino la disperazione. O perlomeno la omettano, corrompendo il ricordo. E io davvero credo che la memoria sia solo una banale autodeterminazione, qualcosa di indotto e perciò di profondamente incerto, traballante, e traballano proprio le fondamenta sulle quali intendiamo erigere le nostre verità, quel processo che per il solo fatto di concepire una cronologia, innesca il movimento dell’immaginazione. E allora occorrerebbe fare ciò fa la scienza quando smette di fare la scienza e fa ciò che dovrebbe fare qualsiasi scienza, ovvero propendere per l’esplorazione, rinnegare la prova empirica e dare voce alle deduzioni, scommettere, investire su una qualsiasi possibilità e poi erigerla sul trono della verità, con la consapevolezza che si è compiuta una scelta, una scelta in mezzo a molte, e semmai giudicare il perché di quella scelta, e non la scelta in sé”.

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